Arrivo a Fano in pieno giorno, ma l’aria è cupa come la tempesta che soffia, c’è allerta gialla, dietro i cantieri navali il mare è agitato. Sono lì per incontrare amici impegnati nel volontariato fanese e nell’economia sociale e li trovo tutti drammaticamente affranti. Angelo era uno di loro, un amico, si era ritirato dall’impegno sociale da diversi anni proprio per aiutare la moglie, che da decenni viveva una condizione psichiatrica difficilissima. Arrivato alla pensione aveva deciso di mollare tutto e di fare solo il caregiver in casa. Sono sconvolti dalla morte della donna, dal gesto disperato di Angelo e dal modo in cui tutti i giornali lo hanno rubricato: femminicida. Questo incontro così fortuito mi fa riflettere su quanto sia importante chiamare le cose con il loro nome, sempre, anche quando fa male. La violenza è una bestia disperata, insita nel cuore umano come “soluzione finale”. Prima di arrivare a Fano avevo la radio accesa in auto e tutti gli intervistati si affannavano a dire cosa andrebbe fatto nelle scuole. Mentre seguivo gli aggiornamenti, mi ripetevo nel cuore che dobbiamo innanzitutto tornare ad ascoltare, a “vedere” prima che ad insegnare. Il caso dell’omicidio efferato di Giulia è certamente femminicidio, ma gli elementi raccolti ad oggi riportano non solo ad un’emergenza di un maschilismo ritorno, se mai se ne era andato, ma a qualcosa di più pericoloso e diffusivo, perchè liquido, velenoso. Il patriarcato è una struttura solida della società in cui il maschio comanda sulla vita della donna, e da quella struttura solida ne deriva un modello di famiglia e di economia in cui c’è una superiorità sulla vita e sulla morte di uno verso l’altra, non solo sui grandi temi come la politica e gli affari, ma anche nelle decisioni quotidiane, nel pranzo da cucinare, nelle scelte da fare sui vestiti, le amicizie, lo studio e così via. Ma, seguendo da diversi anni i giovani difficili, nelle scuole e fuori, ascoltandoli, accompagnandoli, non posso non tacere che esiste un’altra forma che solida non è, che non è patriarcato, non almeno nelle forme che conosciamo.
Sempre più spesso, mi capita di conoscere giovanissime coppie che vivono in perfette simbiosi, in cui ognuno dei due ha le password di entrambi i cellulari, che accedono ad un solo profilo social che usano insieme, che non fanno un passo se non in due, che non conoscono l’indipendenza e la self-directeness, l’autodirezionalità, ma solo la dipendenza affettiva e l’alleanza di coppia.
Ed ho visto, ed assistito, maschi crollare di fronte alla fine di una storia come questa che ho appena descritto, maschi che gridano “ora come faccio!”, quando improvvisamente si ritrovano soli. Non va presa sottogamba questa fragilità psichica, qui si tratta in molti casi di un’uccisione di una “madre” che viene percepita come “abbandonica” quando avvia il tentativo di liberarsi dal suo ex. Nella società dell’amore liquido, esistono maschi che dipendono unicamente dal riconoscimento di una donna che li faccia sentire “vivi” ed “importanti”, e che non riescono ad immaginarsi soli quando una storia finisce. Come scrive Salman Rushdie, quel maschio che viene lasciato dalla sua ragazza “è un edificio che crolla", perchè il suo “IO” è perennemente pericolante, e nel crollo decide di portarsi con sè la donna che vuole lasciarlo, di cui non si sente superiore né padre, a cui è invece legato da un amore tipico del “figlio deviato”. Dobbiamo agire certamente nelle scuole, ma a partire dall’ascolto, non dall’istruzione. Non esisterà alcun decreto salvifico anti-femminicidio e neanche lezioni sufficienti; dobbiamo prenderci del tempo per dire che esiste una diffusissima fragilità psichica maschile che, all’occorrenza, diventa violenta e omicida, una fragilità del senso esistenziale. Umberto Galimberti l’ha chiamata “nichilismo attivo”, che richiede di presidiare le città come le relazioni umane, con spazi di ascolto e di “non-maternage”. Dobbiamo attrezzare le nostre comunità umane con la competenza di accompagnare i giovani maschi verso l’emancipazione. Nel momento storico che affrontiamo, ogni padre deve sentirsi arruolato in modo inedito , ognuno di noi deve vivere con il giusto terrore l’idea che di fronte ad una rottura affettiva anche un proprio figlio potrebbe essere domani un femminicida. Dobbiamo fermarci ad ascoltare le nostre fragilità maschili per parlarne ai nostri figli. E non è una paranoia, è uno sguardo autentico sulla violenza maschile di oggi, liquida, e quindi più invisibile ed imprevedibile di ieri.
di Angelo Moretti, Presidente Fondazione di Comunità di Benevento, su Avvenire.